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(dalle note
di copertina del CD)
Nel momento in cui stiamo buttando giù
queste brevi impressioni su questo splendido omaggio discografico
a Lou Reed (che noi consideriamo peraltro anche un omaggio ai
Velvet Underground e ad una certa New York anni ’70 oggi
quasi completamente scomparsa), non sappiamo ancora con certezza
quale sarà il titolo definitivo della raccolta. Forse
non sarebbe la scelta più azzeccata dal punto di vista
della visibilità e della risonanza commerciale, sempre in
primo piano nell’ottica dei discografici, ma sintetizzare la
forza degli otto brani contenuti nel cd nella locuzione “Style
It Takes” ci parrebbe altrimenti perfettamente logico,
assolutamente aderente alle caratteristiche del
progetto. Questione di stile, di una coolness
indiscutibile
nell’originale, e che Sabrina Bighignoli e i suoi magnifici
quattro riacchiappano apparentemente senza sforzo, trovando una
loro personale strada - senza peraltro snaturare strutture
portanti e melodie - alla parte tuttora più rappresentativa
del canzoniere loureediano (naturalmente la selezione non può
essere esaustiva; chissà che non vi siano successivi
capitoli in futuro). Ce n’eravamo resi conto dalle prime
uscite live, che il quintetto, a cominciare dalla fascinosa
vocalist, aveva nelle sue mani lo
stile che ci vuole (l’omonima,
bellissima canzone è un estratto dalle “Songs for
Drella” che, all’indomani della morte di Warhol, vero
deus ex machina dei primi Velvet Underground, riportarono alla
fruttuosa collaborazione Reed e John Cale). Ascoltando adesso le
otto tracce del percorso, l’idea ci viene consolidata dal
canto apparentemente quasi distaccato e straniato di Sabrina,
dagli arrangiamenti, architettati con creatività e
contemporaneamente profonda cognizione di causa, di Andrea
Temporin, primo, mobilissimo motore di un’opera cui tre
musicisti di chiara fama a loro volta portano personali
contributi. Di fronte ad un lavoro del genere, ci pare
stucchevole e inutile voler mettere i puntini sulle i in eventuali
dissertazioni su quale ‘scaffale’ stilistico debba
accogliere il disco, rock o jazz. Più significativo, ci
sembra, sottolineare come il quintetto abbia saputo cogliere e
trasmettere, con originalità e gusto, quelle tinte noir
(naturalmente
con l’eccezione della ‘solare’ Perfect
Day),
inconfondibilmente metropolitane e inconfondibilmente newyorkesi
(quella New York così esoticamente pericolosa e scura, come
una sorta di foresta amazzonica ancora inesplorata e fuori
controllo, che fa da scenario a Venus
In Furs, Caroline Says #2, I’m Waiting For My Man, Heroin),
di cui Lou
Reed è stato ed è quintessenziale sceneggiatore
rock.
Beppe
Montresor
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